Sapori d'autunno per questo corroborante brodino, o zuppa che dir si voglia, di zucca e patate. Per quanto è semplice da preparare, per una volta vale la pena di accantonare le minestre preparate, e cucinarlo in prima persona. Zucca a cubetti, qualche patata e una cipolla a rosolare in un tegame con poco olio o burro; si copre con un brodo vegetale e si lascia cuocere per una mezza ora. Si passa brevemente al mixer fino a ridurlo ad una crema dalla consistenza filante. Lo sui riporta sul fuoco e la si tira con poca panna liquida.
E' difficile sbagliare: anzi, è facile che venga veramente buona. L'unica incognita è la zucca, che può essere più o meno dolce, e conferire un colore - che anch'esso conta - variabile dall'arancio acceso all'inutile giallognolo.
Le cultivar che preferisco sono la moscata di Provenza (per intenderci globosa, un po' schiacciata e costoluta), dal colore arancio acceso e dal sapore più dolce, o la classica zucca violina (a forma di violino, o secondo tal'altri, di arachide), dal colore - parlo della polpa - arancione rosato e con un marcato retrogusto mandorlato.
A meno di non portarsi a casa un ortaggio delle dimensioni di un reostato, conviene procurarsi un mezzo chilo di zucca già mondata e porzionata: peccato solo che così sia meno facile riconoscerne la varietà.
Ero tentato di bagnarmi le labbra con un vino importante, ma poi sono rimasto sul leggero.
venerdì 23 novembre 2012
martedì 20 novembre 2012
Tofu con verdure
Una robina al volo. Stanco di un mangiare che appesantisce, e che non rende giustizia al decadentismo della mia silhouette, cerco di privilegiare cibi al alto tenore proteico,pochi grassi e pochi o punti carboidrati.
Ecco il tofu, per esempio.
Il moderno Tofu è costituito da proteine vegetali della soia, tenute insieme da una miscela di acetato di vinile. Tradizionalmente il tofu veniva ottenuto attraverso la cagliata del latte di soia.
Quale che sia il tipo che sceglierete di utilizzare, è sufficiente suddividere a dadini il panetto di tofu, farlo rosolare con poco olio, aggiungere verdure miste (carote, cipolle, peperoni ecc) e far insaporire con una salsa di soia.
Pochi minuti di cottura, ed è pronto.
Non è un granché, ma è leggero.
lunedì 29 ottobre 2012
Bastoncini di pesce
Torno dopo qualche mese ad occuparmi di cucina.
Non che non abbia mangiato o cucinato nel frattempo, ma la cosa che più somigli ad una pietanza che ho avuto occasione di mettere sul piatto è quella di cui parlerò in questa occasione.I classici bastoncini di pesce.
Si trovano già bell'e pronti nel banco dei surgelati. LA panatura, sapida e croccante, è il cavallo di troia tramite si riesce ad inserire nella dieta alimentari di individui poco propensi a farlo, il pesce, alimento indispoensdabile per l'alimentaziopne umana.
Peccato che non tutti i bastoncini rendano giustizia della loro nobile missione, e le carni utilizzate non siano tutte di eguale qualità.
Il termine merluzzo, per le preparazioni alimentari a base di pesce, è un termine generico che spazia dal pollack al merluzzo carbonaro, ad altre specie ancora, tutte comunque meno pregiate, e meno valide dal punto di vista tradizionale, del merluzzo vero e proprio (Gadus morhua).
Addirittura, alcunbi tipi di bastoncini di pesce vengono preparati a partire da paste di pesce, e non da filetti interi. Tutto ciò non toglie nulla al loro gusto ed alla loro praticità.
Essendo già abbondantemente ricoperti di una untuosa e spessa impanatura, l'unica accortezza, in fase di cottura, e di passarli rapidamente in padella con un minimo di olio.
Sul piatto, due gocce di limone e una spolverata di erbe aromatiche possono rendere ancora più invitante il tutto.
Nel bicchiere, un vermentino di sardegna. Fresco, con un buqet di fiori di campo ed un retrogusto mandorlato.
giovedì 8 marzo 2012
Carciofi alla Giudia
Per la serie “buona la prima”, mi sono cimentato in
questa delicata preparazione con risultati sorprendentemente incoraggianti. Fin
dal primo tentativo.
Buoni e belli allo stesso tempo.
Verrebbe da dire che il carciofo è, prima di tutto, un
fiore. Ed è anche un bel fiore: i suoi petali incorniciano un tenero bocciolo.
Un po’ di
botanica, allora.
La pianta del carciofo (Cynara cardunculus) appartiene
alla famiglia delle Asteraceae, della
quale fanno parte anche tarassaco, cardo, cicoria, girasole.
La caratteristica floreale è
quella di avere una infiorescenza raccolta in un capolino.
Quindi, per capirci, il carciofo, non
è un fiore, ma una infiorescenza, un insieme di tanti piccoli fiori raccolti in
un capolino.
In realtà il carciofo viene raccolto
prima che si sviluppi l’infiorescenza, e quelle che si mangiano altro non sono
che le bratee, ovvero le foglie
modificate (quelle color verde,o violetto) che accompagnano l’infiorescenza. La
peluria che si trova al centro altro non sono che i frutti (acheni) con il loro caratteristico
piumetto (pappo).
I cimaroli
(o mammole) sono i più pregiati, e
raggiungono la dimensione maggiore (oltre i dieci centimetri di diametro per il
carciofo romanesco IGT); gli altri capolini che crescono sulla pianta (di primo
e di secondo ordine) sono in genere più piccoli.
Per quanto occorrer possa, sono convinto che la
conoscenza anche botanica di una verdura, concorre ad una sua più appropriata
preparazione in cucina.
Torniamo ai Carciofi
alla Giudia
È un classico della cucina giudacico romanesca,
tradizionalmente preparata prima o dopo il digiuno per la Festa del Kippùr
(Giorno dell'espiazione). Festa che cade, appunto, nel periodo in cui in
commercio si trovano i migliori carciofi: i cimaroli o le mammole.
Si puliscono (“capano”) i carciofi, facendo loro assumere
la forma di un bocciolo; si strofinano con il limone e si imemrgono in acqua
acidulata poer prevenirne l’ossidazione.
Si friggono un aprima volta in abbondante olio di oliva a
fuoco moderato; si lasciano indi raffreddare completamente. Una volta
raffreddati con una forchetta si apre delicatamente il bocciolo e si procede
alla seconda cottura, questa volta a fiamma molto vivace, riponendoli con il
gambo in alto.
Una spruzzata di acqua ( o vino) freddo e un ultimo
passaggio in olio bollente conferiscono l’ultimo ttocco di croccantezza al
piatto.
Lezioni di anatomia
Dopo aver provato la coratella, un ripassino di anatomia e
biologia animale è d’obbligo.
Polmone, fegato e cuore sono le parti tipiche della coratella d’abbacchio, ma si mangiano anche quelli di vitello e manzo.
Coratella di abbacchio |
Polmone, fegato e cuore sono le parti tipiche della coratella d’abbacchio, ma si mangiano anche quelli di vitello e manzo.
Il cuore è muscolatura striata, con pregevoli caratteristiche nutrizionali.
I polmoni sono viscere cave, di scarso valore commerciale, utilizzato per lo più come ingrediente di zuppe o minestre.
Da sinistra: milza, polmone, cuore e fegato di bovino adulto |
Di elevati valori nutrizionali trova ampio uso nelle cucine
di tutto il mondo.
Del vitello si mangia anche la milza. La milza è un organo impari (ovvero ce n’è uno solo, un po’ come il cervello, invece di due, come i reni, o tre, come i testicoli), di forma ovoidale, situato nella parte sinistra dell'addome, sotto il diaframma, in prossimità dello stomaco e del pancreas. Il suo compito è di produrre globuli bianchi, ripulire il sangue dai globuli rossi invecchiati e controllare la presenza di agenti patogeni e particelle estranee. Pur essendo dotata di molteplici funzioni, la milza non è un organo indispensabile alla vita. Se ne può fare, insomma, a meno. Viene cucinata a pezzetti, fritta nella sugna, e costituisce companatico d’elezione di quel classico della cucina da strada siciliana che è il panino con la milza ('U pani c'a meusa, )
La trippa è una frattaglia costituita da diverse parti dello stomaco del bovino (stomaco, non l’intestino: quello è la pajata). Generalmente si utilizza l’omaso, che è la terza cavità dello stomaco, anche detta foglietto, da cui il termine foiolo localmente utilizzato come sinonimo di trippa.
Parimenti viene sovente utilizzato anche l’abomaso, la quarta e ultima delle cavità
gastriche presenti nei ruminanti: è proprio dall’abomaso, ad esempio che si
ricava la tipica trippa toscana, il lampredotto.
Schienali |
animelle |
Le animelle. Animella è il nome popolare del timo, una ghiandola situata nel collo dei bovini che non superano i due anni di vita. Ha un elevato contenuto nutrizionale, nonché un elevato tasso di colesterolo. Di gusto delicatissimo rievocante il sapore del latte, è avvolta da una membrana che viene tolta dopo che la ghiandola è stata sbollentata per alcuni minuti. Spesso questo termine animelle viene esteso ad altre frattaglie del vitello, del vitellone o dell'agnello, quali il pancreas e le ghiandole salivari.
Cervello di vitello |
La lingua dei bovini rappresenta un viscere di buon valore
commerciale, costituito completamente da muscolatura striata. Prende parte ai
bolliti di carne.
Del
maiale (ma anche dei vitelli) si mangiano infine gli zampetti (parte
distale degli arti anteriori e posteriori, con abbondante componente tendinea e
legamentosa) e la coda.
mercoledì 7 marzo 2012
The dark side of the food (coratella coi carciofi)
Polmone, fegato e cuore: Coratella di abbacchio |
Il colore, innanzitutto, fa ribrezzo:scuro, bruno, per nulla
invitante.
Il profumo poi, o, meglio, l’odore: pungente.
Complesse sensazioni sinestetiche lasciano ampio spazio però
all’immaginazione di un sapore forte, deciso, che, per fortuna, soddisfano il palato. Esso vi si riempie di stimolazioni dolciastre ed amare. Buone.
Sono le frattaglie.
Le viscere.
Le interiora
Le rigaglie
Corata e coratella: polmone, cuore, fegato.
Ma anche milza, schiene, nervi.
Cervello e lingua.
Budelli
Finanche, nei maialini e vitelli, i piedini.
Apparentemente scarti di macellazione.
Molte cucine tradizionali, in ispecie le cosiddette “cucine povere”, hanno trovato il modo, con fantasia ed ingegno, di nobilitare quelle parti meno nobili dell’animale che rimanevano della macellazione.
A Roma, e non solo, costituiscono la cucina del quinto
quarto, ovvero la parte che rimane della bestia vaccina o ovina dopo che sono
state vendute ai benestanti le parti pregiate: i due quarti anteriori e i due
quarti posteriori. Si faceva di necessità virtù e si riusciva a offrire in
maniera presentabile un po’ di avanzi arricchiti con delle frattaglie.
C’e’ poi da dire che, per la loro veloce deperibilità, le
interiora possono essere consumate solo se veramente freschi: il che è un
vantaggio. E, essendo essi organi indice della salute dell’animale, c’e’ più
certezza che la carne provenga da un animale in perfetto stato mangiandone le
interiora piuttosto che mangiando un taglio pregiato.
Abbondante cipolla con cui rosolare le carni tagliate a
piccoli pezzi,da aggiungere un po’ per volta in considerazione del tempo di
cottura (di più il fegato, di meno il polmone).
Con i carciofi, di cui ora comincia la stagione, formano una
accoppiata vincente
Nel pane, leggermente bruscato da un lato, con abbondante intingolo,
è la morte sua.
martedì 6 marzo 2012
Postacci
Postacci: non sono mica i posti a la Gambero Rozzo - quelle bettolacce in cui è il mangiar male ad
evocare emozioni - né tanto meno i posti in cima alle classifiche del GamberoRosso (quello con la esse), dove perlopiù solo le papille di sprovveduti
gastrogonzi riescono a vibrare d’emozione.
Postacci sono quei posti in cui vai semplicemente per
mangiare, né bene né male, ma per mangiare esattamente ciò che ti vorresti trovare
nel piatto in quel preciso istante, in quel posto, in quello stato d’animo. E
te ne freghi se la tovaglia è di carta, se coltello e forchetta non
appartengono allo stesso servizio, e se perfino i commensali sono spaiati.
Postacci non è dunque un dispregiativo di posto: è un sostantivo
a sé (e, semmai dovesse servire, tenete a mente che ne esiste anche una
versione dispregiativa: postacciaccio).
La Liguria è una terra da esplorare..capace di contentare un
microcosmo in un fazzoletto di terra stretto tra mare e monti, in cui le
stagioni si susseguono al ritmo di uno sciacquone del water, in cui ogni cosa,
perfino una certa ruvidezza caratteriale delle sue genti, è indissolubilmente
legata al territorio.
L’esplorazione comincia un sabato mattina sul lungomare di Sestri
Ponente.
L’aeroporto è talmente vicino che non vale la pena di
prendere un taxi, o un bus…si va a piedi i città e poi ci si muove.
Il primo bus che passa è l’uno, che percorre da un lato
all’altra la città, da Voltri (il nuovo porto commerciale, il grande terminal
container) fino a Caricamento (il
vecchio Porto Antico).
E infine Genova.
La città, per me, inizia con il sestiere (sestiere - e non quartiere - perché nel centro storico
di Genova sono appunto in numero di sei) di Prè.
Una scintillante panetteria, pasticceria è il luogo ideale
per una chiassosa colazione: cappuccino e focaccia.L’accostamento, sorprendente, si rivela molto più familiare
del classico accostamento del cappuccino con il croissant.
Vicoli degradati e sontuosi palazzi secenteschi si alternano
in una ordinata confusione, bagasce e
mercanti, la ricchezza di stucchi e specchi Art Déco di alcuni bar e lo
squallore di altri locali.
Ma tutto ha un fascino, un profumo, una ragion d’essere.
Come il mercato orientale, così chiamato perche sorge nella
parte orientale della città, verso brignole.
Verdure, pesce, carni..un classico mercato annonario, a
colori.
Ora di pranzo.
La meta è fissata, ed è il postaccio di oggi: Trattoria Da Maria,
a due passi da Piazza De Ferrari e dal Teatro Carlo Felice.
Un vicoletto cela l’ingresso di questo locale che è una vera
e propria istituzione per i genovesi.
Semplicità del posto - decoroso ma senza fronzoli - e genuinità
della cucina - la creatività e le variazioni qui non sono ammesse: tutto è
fatto alla maniera classica - sono le carte vincenti di questo locale che,
anche adesso che Maria non c’è più, tiene fede alla tradizione.
Clienti fissi e, pochi, forestieri di passaggio si accalcano
su lunghe tavolate, chi chiacchierando, chi rimuginando in silenzio.Nicoletta, maître di sala, ha il suo bel da fare.
Al piano terra un paio di stanze e la cucina in vista; una ripida
scala, anch’essa a vista, conduce al piano superiore dove con altrettanti locali, di solito un po’ meno affollati, si
riesce sempre a trovare posto, senza lunghe attese.
In ogni caso , qui, l’orario del pranzo è massimo a mezzogiorno:
oltre tale ora, la lista dei piatti si accorcia sempre di più.
C’e’ poi la carta, il menù, dove ogni piatto è accompagnato
non tanto dalla sua descrizione, quanto da un appellativo qualificativo.
Ecco dunque che il minestrone alla genovese sarà indicato come
minestrone “buonissimo”; lo stesso dicasi del polpettone: basta sapere che è “buonissimo”,
cosa ci sia dentro è secondario.
il dolce della casa è semplicemente “delizioso”, di nome e
di fatto.
Commensali vanno e vengono con gran velocità: ho quasi finito
di mangiare il mio minestrone (a proposito: buonissimo!) che mi si siedono
davanti Bob e Roberta.
La conversazione prende subito piede: Bob è Roberto - Bob -Quadrelli, una leggenda della scena indie Genovese. Un Premio Tenco alle
spalle, una lunga carriera che spazia tra il punk e l’ento-folk, una misteriosa
malattia che lo mina nel fisico ma non nell’animo.
Roberta è Roberta Barabino, raffinata ed elegante
cantautrice genovese: un LP (Magot), delizioso e suadente, da poco uscito.
Sulle pareti, non foto di vip tristi testimonial al locale, ma una serie di testimonianze, aneddoti, mattestati di riconoscenza, lasciati da chi nel corso degli anni
ha eletto Da Maria come una propria seconda casa.
Undici Euro e 50 per un menù completo, comprensivo di vino e
dolce.
Il caffè non me lo sono scordato di prendere: a Piazzale
Corvetto, percorrendo poche centinaia di metri della sciccosissima Via Roma, c’è
lo storico Bar Pasticceria e Confetteria Mangini, un localedi gran classe.
Il pomeriggio prosegue con ampie passeggiate per la città,
in attesa della prossima gastro-meta già stabilita: destinazione Savona.
Musica: un omaggio a Roberta Barabino e alla sua compagnia. - Buongiorno a te -Radio Edit- Magot, Roberta Barabino
Musica: un omaggio a Roberta Barabino e alla sua compagnia. - Buongiorno a te -Radio Edit- Magot, Roberta Barabino
spaghetti con la bottarga
Non passa che un giorno da quanto ho sperimentato l’esclusiva
semplicità degli spaghetti ajo e ojo,
che vedendo un vasetto di bottarga di muggine mi è balenata un’idea.
La ricetta sembra identica, il risultato - e il sapore - è
completamente differente.
La bottarga - per chi non lo sapesse - non è altro
che il sacco ovarico, le gonadi, insomma le uova - sottoposto a salatura e
pressatura. La muggine altro non è che il cefalo; la bottarga di tonno è ancora
più pregiata.
Si unisce a fine cottura, in padella saltando la pasta con
del buon olio extra vergine di oliva.
Una grattatina di ricotta salata non ci sta male.
Il prezzemolo - ornamentale, s’intende - è d’obbligo.
Vino: La segreta Planeta
2010 - un sapiente mix di uve autoctone della Sicilia (Grecanico) e vitigni
internazionali (Chardonnay, Viognier) Un naso esuberante e un riuscito
equilibrio tra acidità e sapidità al palato
Nihil in the fridge (quando il frigo è vuoto)
Aspettavo con ansia il giorno in cui non avrei trovato nulla
nel frigorifero.
Né un uovo, né dei pomodori, né della verdura, nemmeno della
carne. Niente. Di niente.
È il giorno perfetto. The perfect day. È il giorno perfetto per cimentarsi nel piatto più
semplice, l’unico, forse al pari dell’uovo al tegamino e della patata lessa,
che è in grado di rivelare l’effettiva abilità in cucina.
È il giorno perfetto per due spaghetti ajo e ojo. E peperoncino.
L’aglio era pure rinsecchito. Il peperoncino era quello confezionato
frantumato. L’olio era invece buono buono: un Canino dop.
La preparazione è semplicissima: che devo dire!? Spaghetti
(o linguine, ma meglio gli spaghetti) cotti al dente, aglio fatto sfrigolare
nell’olio insieme al peperoncino, poi tolto (ma c’e’ chi lo lascia). Due salti
in padella. Una spolverata di prezzemolo come ornamento.
Evuala’
Vino: castelli romani bianco. Asciutto e sapido
Musica:
Genesis, Firth of fifth
martedì 21 febbraio 2012
Cacio & Pepe
Si torna a cucinare.
Resto fermamente convinto che quanto più semplice è la preparazione, quanto più ristretto è il novero degli ingredienti, tanto maggiore sarà la soddisfazione nel gustare una vivanda della quale si riesce a percepire la pienezza dei profumi e dei sapori.
Cacio e Pepe è un classico della cucina romanesca.
Dietro la sua semplicità, si nasconde, tuttavia, una certa complessità nella realizzazione che richiede indubbia abilità.
Pasta in bianco con il formaggio l’abbiamo mangiata tutti..e non basta una grattatina di pepe sopra per farla diventare una cacio e pepe. Basta però poco di più di quanto strettamente necessario, basta sbagliare tempi e sequenza per trasformare una potenziale cacio e pepe in un pastone poco gourmand.
Innanzitutto: “cacio e pepe” cosa? Manca il soggetto. Sottointeso, la pasta: ma quale? Gli spaghetti? i rigatoni? i tonnarelli?
Sono tre valide possibilità: gli spaghetti in nome della tradizione e della essenzialità, i tonnarelli tendono ad assorbire ancora di più il condimento, e può essere tanto un pro quanto un contro, i rigatoni se proprio uno non riesce a rinunciare alla pasta corta.
Pasta cotta al dente, riversata - ancora gocciolante - in una bowl dove avrete messo abbondante pecorino romano e pepe nero grattugiato al momento.
Si mescola subito e rapidamente: l’acqua residua di cottura contribuirà ad estrarre l’amido dalla pasta e ad amalgamare l’ingredienti.
Ancora una spolverata di pecorino e una grattatina di pepe e si impiatta.
Importante che tutto sia caldo: la pasta, i recipienti, il piatto..sennò il formaggio si rapprende.
Poi la potete fare come volete: sappiate che in blasonati locali romani la propinano con una cremina diluita con olio o burro e tendono ad ammorbidire il sapore del pecorino con una buona percentuale di parmigiano.
Ma la ricetta della tradizione, la stessa tradizione che ne faceva un piatto povero dei pastori, è quella che vi ho descritto.
Nel bicchiere: un vino bianco, fresco, ben strutturato, profumato. Un pecorino ad esempio.
Nello stereo Red Hot Chili Peppers - Can't Stop.
Resto fermamente convinto che quanto più semplice è la preparazione, quanto più ristretto è il novero degli ingredienti, tanto maggiore sarà la soddisfazione nel gustare una vivanda della quale si riesce a percepire la pienezza dei profumi e dei sapori.
Cacio e Pepe è un classico della cucina romanesca.
Dietro la sua semplicità, si nasconde, tuttavia, una certa complessità nella realizzazione che richiede indubbia abilità.
Pasta in bianco con il formaggio l’abbiamo mangiata tutti..e non basta una grattatina di pepe sopra per farla diventare una cacio e pepe. Basta però poco di più di quanto strettamente necessario, basta sbagliare tempi e sequenza per trasformare una potenziale cacio e pepe in un pastone poco gourmand.
Innanzitutto: “cacio e pepe” cosa? Manca il soggetto. Sottointeso, la pasta: ma quale? Gli spaghetti? i rigatoni? i tonnarelli?
Sono tre valide possibilità: gli spaghetti in nome della tradizione e della essenzialità, i tonnarelli tendono ad assorbire ancora di più il condimento, e può essere tanto un pro quanto un contro, i rigatoni se proprio uno non riesce a rinunciare alla pasta corta.
Pasta cotta al dente, riversata - ancora gocciolante - in una bowl dove avrete messo abbondante pecorino romano e pepe nero grattugiato al momento.
Si mescola subito e rapidamente: l’acqua residua di cottura contribuirà ad estrarre l’amido dalla pasta e ad amalgamare l’ingredienti.
Ancora una spolverata di pecorino e una grattatina di pepe e si impiatta.
Importante che tutto sia caldo: la pasta, i recipienti, il piatto..sennò il formaggio si rapprende.
Poi la potete fare come volete: sappiate che in blasonati locali romani la propinano con una cremina diluita con olio o burro e tendono ad ammorbidire il sapore del pecorino con una buona percentuale di parmigiano.
Ma la ricetta della tradizione, la stessa tradizione che ne faceva un piatto povero dei pastori, è quella che vi ho descritto.
Nel bicchiere: un vino bianco, fresco, ben strutturato, profumato. Un pecorino ad esempio.
Nello stereo Red Hot Chili Peppers - Can't Stop.
venerdì 17 febbraio 2012
Circles of food - breakfast edition
Mi sto troppo divertendo.
Un coppapasta può diventare un accessorio che provoca dipendenza.
Nasce come stampino, diventa una forma per impiattare, infine
lo si usa come fustella per tagliare.
Mi sveglio e non riesco più a concepire l’idea di poter fare
colazione con qualcosa che non sia riportato alla perfezione di una forma
circolare.
Ne fanno le spese nell’ordine:
- due fette di pane integrale tostato
- una arancia
- una mela
Circles of food - 2
Di nuovo con i miei bei tre cerchietti.
Questa volta, all’immancabile taglio di roast beef argentino (dovevo pur finirlo) ho associato un cous-cous allo zafferano, e una insalatina catalana.
Due parole sul cous-cous.
Preparato a partire dal grano precotto, che di gran lungo è
il più comodo, in eguale proporzione di acqua.
Al bollore di questa, spenta la fiamma, unito un cucchiaio di olio a filo, o una noce scarsa di burro, si scioglie una bustina di zafferano in polvere, si aggiunge il cous-cous, si sgrana con i rebbi della forchetta, si copre ed in cinque minuti è pronto.
Al bollore di questa, spenta la fiamma, unito un cucchiaio di olio a filo, o una noce scarsa di burro, si scioglie una bustina di zafferano in polvere, si aggiunge il cous-cous, si sgrana con i rebbi della forchetta, si copre ed in cinque minuti è pronto.
L’insalatina catalana altro non è che un mix di insalata a
foglia verde (indivia o scarola riccia) e peperoni dolci a striscioline, verza e un po’ di carote e zucchine
à la julienne.
Condita con succo di limone,
sale, olio e pepe.
Carne, cous-cous e insalatina ordinatamente impiattati con
un coppapasta e coperti da un sottile filo d’olio.
martedì 14 febbraio 2012
Circles of food
Coppapasta |
Ho trovato da IKEA (3,99 €) degli stampini in acciaio inox, che solo dopo averli presi ho scoperto essere non gli stampini per tagliare i biscotti, ma i famosi -e tanto cercati, almeno finché non ho scoperto come si chiamassero e a cosa servissero bene - coppapasta.
Si tratta di quegli stampini senza fondo che vengono utilizzati non solo per tagliare le vivande, ma soprattutto per comporre e impiattare in modo elegante gli alimenti, riso, pasta, contorni di patate e verdure, per dare forma a desert, aspic ed alimenti cotti al forno.
Per il giorno di San Valentino sono andati a ruba quelli a forma di cuoricino, ma anche quelli classici rotondi ho avuto la fortuna di trovarli una sola volta - e mai più - da IKEA.
Il protagonista di oggi, dicevo, non è la sostanza del cibo che è stato cucinato, bensì la sua forma.
Un succulento taglio di roast-beff argentino, sottoposto a lunga frollatura e marinato, pan-fried in padella, con poco olio o burro chiarificato. La cottura rapida e ad alta temperatura- il pan frying, appunto - consente una rapida attivazione della reazione di Maillard, che conferisce alla carne un aspetto brunito e croccante e dona un dolce profumo abbrustolito.
Oh, detto per inciso, la reazione di Maillard (in parole povere la reazione che avviene durante la cottura tra gli amminoacidi delle proteine e gli zuccheri: una sorta di caramellatura) non potrebbe avvenire nella carne se questa non fosse stata preventivamente marinata.
Così cotta, la carne rimane tenerissima e succosa; con una leggera del coppapasta ne ricaviamo un primo cerchietto.
Per il secondo cerchietto ho stufato delle cipolline borretane pulite con un po di patate novelle e della salsa di pomodoro. Ne è venuto un contorno leggero e saporito che si è fatto praticamente da solo.
Come accompagnamento, infine, ho riempito un altro coppapasta con del riso roma cotto al naturale, a mo’ di imballino.
Tre cerchietti da 5 cm di diametro.
Avevo pronto un Lambrusco Grasparossa di Castelvetro secco, che si è rivelato un ottimo accompagnamento.
Musica: Toy Dolls - Lambrusco Kid
http://www.youtube.com/watch?v=a6z3ynWEjdc
mercoledì 8 febbraio 2012
American-style Breakfast
Stavolta ci vado giù pesante.
Una colazione a
base di bacon and eggs, rivisitata in chiave continentale.
Per prima cosa,
direi di partire dalla musica, che possiamo far partire subito, mentre vi
dispiego l'architettura del piatto. Pink Floyd-Alan's Psychedelic Breakfast è
una scelta d’obbligo.
Per il piatto le immagini parlano già da sole: due uova all’occhio
di bue, un po’ di affettato fritto e delle patate novelle lessate.
Si parte con lo scaldare un po’ di burro in una padella dove vi si fa sfrigolare il bacon, o, come in questo caso, del prosciutto tirolese affumicato.
Tenete la fiamma viva, ma non fate mai fumare la padella, nella quale,
subito dopo, dovrete andare a cuocere le uova all’occhio di bue.
Patate: ottime quelle novelle - potete anche mangiarle con la
buccia che è sottilissima - appena scottate in acqua bollente; in alternativa
del purè. Lasciate agli americani le patate fritte.
Da bere, resistete alla tentazione di accompagnarvi con una falangina
ghiacciata, e concedetevi una bella spremuta di arance fresche.
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